A proposito de Le cose innegabili di Eugenio Lucrezi |
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Poeta della distrazione del significato, refrattario a qualsivoglia domesticazione di scuola o di collegio e immune dagli affanni teorici, Cagnone è fautore dell’abbandono della pretesa stilistica e tuttavia praticante di uno Stile Alto per amore delle cose ordinarie e dei comuni luoghi; ed è uno dei maestri reconditi delle nostre stagioni penultime e ultime, che ha attraversato – erraticamente e non senza un’eleganza sbadata e tutta sua – su rotte di progressivo allontanamento dai canoni del moderno. Il dichiarato amore per l’Antico non ne fa però un sacerdote dei valori fondanti del Mito né un inquilino d’Arcadia. La parola poetica è oggi, più che mai, discorso politico, veritiero e forte perché abbatte le incrostazioni di significato inerte che si accumulano, a causa dell’usura derivante dall’uso e della malafede dei politicanti e dei persuasori di professione, sulle infinite pronunce che affollano la fonosfera e la semiosfera che da ogni dove ci costringono. E tuttavia il poeta Cagnone sa di non essere più abitante della polis, un tempo supremo luogo dialogico; di essere piuttosto ospite di un mondo ulteriore e in qualche modo postumo all’Umano, nel quale la duplice avventura della luce e del buio, della luminosa visione e dell’oscuro sperdimento del senso, risolvono in duplice malinconia discorde (titolo di un suo bellissimo libro in prosa di qualche anno fa, in catalogo per le edizioni “La Finestra”). In quest’opera recente, intelligenza degli accadimenti e comparsa di figure nuove sfocano sulla superficie di un mondo che si ritrae, ormai estraneo al suo suprematico abitatore; al quale non resta che accarezzare, in sforzo percettivo, l’opacità degli oggetti e dei luoghi: le cose innegabili. Poesia politica, pertanto, ma in un senso assai distante dall’accezione corrente tra i molti praticanti che s’illudono di farne facendo sociologia. Il libro – accompagnato, in quarta, da una densa riflessione di Daniela Marcheschi – ha, come d’abitudine in questo autore, una struttura poematica, e consta di settantuno testi numerati progressivamente. Nessun titolo, nessuna nota. I versi, per lo più brevi, non mostrano vesti di attrezzata retorica e quasi nascondono i metri: “[...] saremo noi, senza fretta / in un istante, contenti / d’assordarci e guarire. // Eravamo pretendenti, / poi spericolate serietà / di cui nessuna / attenta a uno spiraglio, / solo un trasalire di colori / in falso lume. // Noi come siamo / ora, noi che siamo / distanziato sogno”. Futuro, passato e presente governano ciascuna delle tre stanze di questa poesia che apre il libro dicendo noi con accenti concentrati e insieme dilatati in espansione centrifuga, come per effetto di energia oscura che allontana le galassie e strappa le particelle agli atomi; o come in distanziato sogno, appunto. La narrazione in versi, che si avvale di un’aggettivazione mai esornativa, tesa costantemente alla definizione delle figure, attraversa gli spazi di scenari naturali appena scalfiti dall’opera dell’uomo e i tempi delle stagioni che si avvicendano, delle nascite e delle morti della miriade delle creature vegetali e animali, degli umani per i quali soltanto, tuttavia, “non si fa amicizia / con l’intermedio vuoto”. Fratello di Klee e di Landolfi, Cagnone è nella famiglia dei poeti antimetaforici e delle cose, al cui cospetto “noi, / alberi sfrondati, ignari / dell’abbondanza del disegno / e minuziosamente asserviti” non possiamo che porci all’ascolto di passi mormorati, in stupefacente ed effimero rigoglio, da “figure scarse” eppure traboccanti di vita che “laggiù si giace in molte lingue / (nessuna grammatica però, / né scontentezza di legami)”. Tale atteggiamento di ascolto dell’indistinto viene qui tradotto in distinte figure che dall’ombra alla colorata luce iniziano a “consistere / nell’ardua interezza / dei frammenti”. Un non sapere calmo, immerso in un non orgoglioso scorrere che non sa che farsene dello “sfigurato canone / dei miei pensieri”: non puoi imparare ricordando. Poesia ed esperienza sono la stessa cosa, anche se è innegabile che “l’onda che ultima s’invera / non ha esperienza”. |
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