Oscuramente sí Obscurely Yes
   
  Minuziosa avventura del giorno dopo giorno, avendo stanza
dove può la luce ravvedersi. Permalosa insistenza a raccogliere
vecchi barlumi, adombrate necessità, ardui riverberi. Fatica
di adunare cose disorientate, ormai rapprese, che da sole non
saprebbero dire. E un’intonazione tragica, quasi una tintura (su
quale distratto palcoscenico?). Un compianto ritualizzato, che
non ripete pene. Il moto con cui si agisce è lo spasimo, il brivido
mentale, la minima vicenda somatica che seguirà l’ansia del
respiro.
In Angelo Cagnone – o, più giustamente, in mio fratello – resiste
l’onore della pittura occidentale. Servitore della propria
pittura, l’esaudisce ogni volta con virtuosa ostinazione. Giardiniere
in suo giardino, inverno dopo inverno, fa di quella rimasta
penombra un regno, e dell’implicito il suo inno.
Non v’inganni il perentorio mondo entro cui dispone: una
fortunata trepidazione fa vacillare ogni canone. Qui c’è l’irrequieto
sentir vedere, la memoria (per forza di cose tardiva) di
perduti ma imminenti affanni. C’è muta presenza, come di coreuta
che renda testimonianza, in un teatro antico, e la malinconia
di chi sa spodestate dai crepuscoli le aurore.
Il suo giorno principia così, verso la fine, entro una storia già
scritta, di cui si dovrà pur conoscere il tormento; o meglio, l’impersonale
smarrimento di saper compiute le possibilità del tempo,
e incompleta la nostalgia del porre fine. Le cose non si aggiustano,
le cose non si salvano, si può soltanto accompagnarle
agli onorevoli sepolcri in cui – strato su strato – tacciono i
morti, con loro tenuto, dispettoso sorriso.
Minute adventure of the day after day, having stanza where
light can mend its ways. Testy insistence to gather old gleams,
shaded needs, arduous reverberations. Effort to muster things
disorientated, by now stale, that alone wouldn’t know what
to say. And a tragic intonation, a dye almost (on what distracted
stage?). A ritualized dirge that does not repeat sorrows. The
movement with which he acts is the spasm, the mental shiver,
the minimum somatic event that will follow the anxiety of breathing.
In Angelo Cagnone — or, more correctly, in my brother — the
honour of western painting resists. His own painting’s servant,
he every time complies with it with virtuous obstinacy. Gardener
in his garden, winter following winter, he makes a realm
of that remained half-light, and his hymn of the implicit.
Don’t be fooled by the peremptory world in which he orders:
a fortunate trepidation makes every canon waver. Here
there’s the disquieted hearseen, the memory — tardy, perforce
— of lost although imminent unease. There’s mute presence, as
the choral dancer who renders testimony, in an ancient theatre,
and the melancholy of who knows the dawns deposed by twilights.
His day commences in this way, towards the end, within a
story already written, the torment of which he has to know.
Or better, the impersonal bewilderment of knowing he has
done the possibilities of time, and incomplete the nostalgia of
the closing. Things do not set themselves right, things do not
save themselves, one can only accompany them to honourable
burials in which — layer on layer — the dead stay silent with
their retained, scornful smile.
   
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